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martedì 16 settembre 2014

Pesce e mercurio? Mettiamo i puntini sulle i

Il consumo di pesce è sempre fortemente consigliato per il suo quantitativo di Omega 3 che tanti benefici apporta al nostro organismo. Ma, nonostante questo, il consumo di pesce è ancora molto "snobbato" dai consumatori, per svariate motivazioni (costa troppo, ha troppe spine da togliere, è complicato da cucinare, non mi piace il sapore, puzza, è inquinato, ecc)

Uno dei problemi più noti, nello specifico, è la possibilità che il pesce che mangiamo contenga mercurio, uno spauracchio che ci dà solo un motivo in più per evitare di mangiarlo.
Naturalmente un accumulo di mercurio è pericoloso per l'organismo, ma è il caso di dare qualche piccolo chiarimento, rifacendoci ad un'intervista a Maurizio Ferri, medico veterinario e membro del Consiglio Direttivo SIMeVeP (società italiana di medicina veterinaria, pubblicata da Il Fatto Alimentare:


Che cos’è il mercurio e quali sono gli effetti tossici per le persone?

Il mercurio è un metallo che esiste in diverse forme chimiche ed è rilasciato nell’ambiente sia da fonti naturali che artificiali. Una volta rilasciato, subisce una serie di trasformazioni complesse e fa parte di diversi cicli tra atmosfera, oceani e terra. Le tre forme chimiche del mercurio sono: mercurio elementare o metallico, mercurio inorganico e mercurio organico. Il metilmercurio è la forma più comune di mercurio organico, la più tossica, ed è presente nella catena alimentare principalmente nei prodotti ittici. I gruppi di popolazione particolarmente interessati o a rischio di esposizione al mercurio includono le donne in gravidanza o che allattano, e i bambini. La gravidanza e l’allattamento costituiscono i periodi più critici per la tossicità del metilmercurio. Questa sostanza è in grado di superare la barriera cerebrale e quella placentare causando danni a carico del sistema nervoso centrale e dello sviluppo del feto: alte dosi causano ritardo mentale grave del nascituro, dosi più basse provocano alterazioni dello sviluppo psicomotorio. Tra i sintomi legati all’esposizione cronica ci sono le alterazioni della funzionalità renale, della memoria, problemi motori e della coordinazione. È documentata l’associazione tra l’esposizione al metilmercurio e le malattie cardiovascolari (JECFA, 2007) anche se è noto l’effetto benefico del consumo di pesce (presenza di acidi grassi omega 3) che contrastarebbe l’azione del metilmercurio sul sistema cardiovascolare. Un’azione di contrasto è svolta anche dal selenio presente nell’ambiente o negli alimenti.

Quali sono gli alimenti che costituiscono un rischio sanitario per i consumatori ?

Il mercurio è ampiamente presente negli alimenti, compresi i vegetali, ma la sua forma tossica, il metilmercurio, è riscontrabile a livelli significativi soltanto nei prodotti ittici. Le altre fonti alimentari contengono mercurio inorganico, poco assorbito nel tratto gastrointestinale e rapidamente escreto. Dall’esame della letteratura si stima che nei prodotti ittici circa il 90-99% del mercurio presente nei pesci si trova sotto forma di metilmercurio. In particolare le specie predatrici quali il pesce spada, tonno, squalo e altri (come smeriglio, verdesca, palombo), trovandosi all’apice della catena alimentare, possono contenere livelli elevati di metilmercurio (compresi tra 500 e 1.500 μg/Kg) e dunque costituire importanti fonti di esposizione per l’uomo. Tutti gli altri tipi di pesce a rischio (ovvero carnivori di terzo e quarto livello trofico nella piramide alimentare, quali salmone, merluzzo, sogliola, gamberetti …) contengono quantità inferiori. I pesci predatori presentano livelli di mercurio decisamente superiori rispetto a quelli erbivori della medesima taglia. Esiste comunque un’ampia variabilità nella concentrazione del mercurio tra esemplari pescati in tempi e luoghi differenti e appartenenti a diverse specie. Ricordo inoltre che nel muscolo del pesce il metilmercurio si lega specificatamente allo zolfo, quindi agli aminoacidi solforati, distribuendosi così in tutto il tessuto muscolare dell’animale. Per tale motivo è impossibile separare porzioni di pesce contenenti Hg da parti prive.

Esiste un limite di mercurio nei prodotti ittici?

Nei pesci erbivori si riscontra, normalmente, un contenuto di Hg nettamente inferiore al limite di legge fissato dal Reg. (CE) 1881/2006 e s.m.i. (0.50 mg/kg), mentre non è inusuale riscontrare valori elevati di tale elemento, anche superiori al limite di riferimento (1.0 mg/kg), nelle specie predatrici quali tonno, pesce spada o squali. I limiti di mercurio nei prodotti della pesca sono stabiliti dal Regolamento (CE) n. 1881/2006, che ha fissato 0,5 mg/kg per i pesci e muscolo di pesce, e 1 mg/kg per lo squalo, pesce spada, tonno, rana pescatrice, storione, ecc..

È chiaro che l’assunzione media di mercurio da pesce e frutti di mare varia da paese a paese a seconda della quantità e del tipo di pesce consumato. Esiste dunque una regionalizzazione dei consumi di pesce, ad esempio In Italia il consumo di prodotti ittici si attesta intorno ai 22 Kg pro capite/anno, con il Sud che consuma il doppio del Nord.

Dalle stime di assunzione di metilmercurio attraverso il consumo di prodotti ittici, è risultato che la media dei livelli di esposizione in Europa sulla base dei dati forniti dagli Stati membri è al di sotto e a volte piuttosto vicina alla dose settimanale tollerabile di 1,6 μg/kg di peso corporeo per tutti i gruppi di età, con l’eccezione di bambini piccoli (meno di sei anni) e altri bambini come descritti in altre indagini. I consumatori frequenti di pesce, che potrebbero includere le donne in gravidanza, possono superare tale dose sino a circa sei volte. I bambini non ancora nati costituiscono il gruppo più vulnerabile. Infatti se il metilmercurio supera i livelli di assunzione stabiliti diventa particolarmente tossico per il sistema nervoso e cervello in via di sviluppo. L’esposizione durante la gravidanza e la prima infanzia è quindi particolarmente preoccupante.

Come si può prevenire il rischio mercurio nei prodotti ittici ?

Stante l’impossibilità in un contesto di crescente globalizzazione di garantire la totale assenza sul mercato di prodotti ittici contenenti mercurio oltre i limiti consentiti (è comunque possibile selezionare ed utilizzare zone di pesca caratterizzate da livelli bassi di mercurio), fatto salvi gli interventi di sequestro e distruzione di partite risultate non conformi a seguito di controlli veterinari, la gestione del rischio mercurio nei prodotti ittici, può essere affrontato solo integrando i livelli di responsabilità che attengono gli organi di controllo con quelli dei consumatori. In sostanza gli interventi più efficaci dovrebbero spostarsi sul campo della prevenzione, attraverso interventi di comunicazione/informazione rivolti ai consumatori finalizzati ad evitare consumi eccessivi di specie a rischio in particolare per le categorie di consumatori sensibili.

La Commissione Europea (DG Sanco- Health & consumer protection directorate general) in una recente nota informativa consiglia le donne in età fertile, quelle in stato di gravidanza o in fase di allattamento e i bambini, di evitare di assumere pesce spada, squalo e sgombro o al limite di non consumarne più di una porzione piccola alla settimana (meno di 100 g). In caso di consumo di tale porzione non si dovrebbe mangiare nessun altro pesce nello stesso periodo. Anche la FDA e EPA americane invitano i consumatori a non eccedere nel consumo di tonno o pesce spada (si sconsiglia inoltre di mangiare tonno più di 2 volte) e a variare il consumo di pesce, proprio per limitare l’apporto di mercurio.

Prendendo in considerazione l’importante apporto nutrizionale che il pesce fornisce con la dieta, anche l’EFSA raccomanda che le donne in età fertile (in particolare, coloro che intendono avere una gravidanza), le donne incinte e che allattano come pure i bambini, selezionino altri pesci, senza dare la preferenza indebita ai grandi pesci predatori come il pesce spada e il tonno. Tutti gli altri tipi di pesce a rischio (ovvero carnivori di terzo e quarto livello trofico nella piramide alimentare) potrebbero esser mangiati con moderazione, in misura pari a 300-400 g/settimana.

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venerdì 5 settembre 2014

Le diossine: gli interferenti endocrini che nascono dalle ceneri (e non solo)

Le diossine appartengono a quella categoria di composti chimici denominati organoclorurati. La loro caratteristica è il forte legame carbonio - cloro, che conferisce a queste molecole una grande persistenza, Una molecola di diossina, immessa nell'ambiente, resiste anche 7-11 anni.

Si parla di diossine, al plurale, in quanto si tratta di una famiglia di 75 congeneri, anche se comunemente, con il termine diossina, ci si riferisce alla 2,3,7,8 tetraclorodibenzo - p - diossina,

La diossina appartiene al grande gruppo degli interferenti endocrini, come dice la parola stessa influiscono sui sistemi ormonali, accelerando, rallentando, o modificando completamente il loro funzionamento, In particolare, dopo il disastro di Seveso, ma anche in seguito ad altri eventi di contaminazione da diossina, si è osservato un aumento del numero di aborti spontanei e nascita di feti malformati, sia negli animali che negli uomini, Inoltre, dal 1997, la diossina è classificata dall'IARC come sostanza cancerogena.

Due sono i processi che portano alla formazione di diossina:

1) Industriale: la diossina si forma come sottoprodotto di una reazione chimica contenente cloro. Questo è il caso della contaminazione avvenuta a Seveso nel 1976.

2) Termico: combustioni incomplete (in cui la sostanza organica non è completamente convertita in CO2), in presenza di cloro (in proporzioni definite, però, non basta la sola presenza) e ad una temperatura compresa tra i 300 e i 450°C.

La diossina, quindi, è essenzialmente, un problema di ARIA.

In verità, una volta immessa nell'atmosfera, la diossina può ricadere sulla terra o per precipitazione secca o per precipitazione umida (ovvero adsorbita alle precipitazioni).

In questo modo, la diossina si deposita sulle piante, sui frutti, sull'erba. E' una sostanza idrofoba e lipofila, ovvero non si scioglie in acqua, ma si scioglie nei tessuti grassi. Questo significa che può accumularsi nei tessuti adiposi degli animali (tra i quali, ricordiamo, ci siamo anche noi). 

Il problema non è grave relativamente ai vegetali. Nel suolo si adsorbe alle particelle di terra e non viene assorbita dalle piante (neanche tramite l'acqua, vista la sua idrofobicità). Le uniche che fanno eccezione sono le cucurbitaceae, perché secernono nel suolo una sostanza in grado di rendere disponibile la diossina per le piante.
Per tutti gli altri vegetali, invece, è buona norma lavare bene frutta e verdura prima di mangiarle e per lavare bene intendiamo proprio LAVARE BENE.

Ma c'è un problema: ok, noi laviamo frutta e verdura...ma chi lava l'erba prima che le mucche, le pecore e gli altri animali da pascolo la mangino? La risposta è NESSUNO.

Gli animali da pascolo assumono, laddove presente, diossina dall'erba che mangiano e tendono ad accumularla nei loro tessuti grassi, quindi adipe e latte materno. 

Come fare per evitare di mangiare alimenti contaminati?

Dai primi anni 2000 il Ministero della Salute ha attuato vari piani (alcuni dei quali tutt'ora in corso) allo scopo di controllare gli allevamenti, i loro mangimi ed i loro prodotti, Alla luce dei risultati ottenuti è stato imposto l'obbligo agli allevatori di effettuare controlli semestrali e di segnalare eventuali non conformità. 
Quindi, quando acquistiamo derivati del latte e carne accertiamoci di conoscerne la provenienza ed evitiamo di affidarci ad allevatori sconosciuti che producono "da sé" bypassando gli obblighi per i produttori.
Evitiamo di prendere troppo peso, un aumento di massa grassa nel nostro corpo aumenta automaticamente la possibilità di accumulare diossina nel tessuto adiposo.
Qualora, invece, ci troviamo già in condizioni di grande sovrappeso o obesità, evitiamo di affidarci alle diete "tutto e subito". Se negli anni notevoli quantità di diossina si sono accumulate nel tessuto adiposo, ma, un po' perché l'esposizione è stata bassa e cronica, un po' perché rimasta "intrappolata", non abbiamo avuto alcun sintomo, un dimagrimento eccessivamente veloce porterebbe alla liberazione nell'organismo di quantità di questa sostanza che risulterebbe tossica.


Bibliografia:
Barbiere M, Umlauf G and Skejo-Andresen H, Campionamento analitico della zona B di Seveso e Comuni limitrofi per la ricerca della 2,3,7,8-TCDD residua (V fase) e accordo aggiuntivo per la zona A. Rapporto finale, maggio 2000
Facchetti S and Balasso A (1986), Studies on the absorption of TCDD by some plant species, Chemosphere 15, 1387-1388
IARC, 1997, Monograph on the Evaluation of the Carcinogenic Risk of Chemicals to Man, Vol. 69, p.33.
Ministero della Salute, Dipartimento della sanità pubblica veterinaria, della sicurezza alimentare e degli organi collegiali per la tutela della salute, Direzione generale per l’igiene e la sicurezza degli alimenti e la nutrizione, Controllo diossine negli alimenti – Regione Campania: periodo 2001 – 2012, anno 2013.
US EPA., Environmental Protection Agency,1994, Health Assessment documenti for 2,3,7,8 – tetrachlorodibenzo – p – dioxin (TCDD) and related compounds, US Environmental Protection Agency, EPA/600/BP-92/001 a-c).
WHO, World Health Organization, Population health and waste management: scientific data and policy options, Marzo 2007.

venerdì 29 agosto 2014

Bioaccumulo, Bioconcentrazione e Biomagnificazione: gli anelli di congiunzione tra i problemi ambientali e le loro ripercussioni sulla salute

Con il termine bioaccumulo si indica quel fenomeno di accumulo irreversibile di una sostanza nei tessuti degli organismi viventi. Esso viene utilizzato, indirettamente, come parametro per la determinazione degli effetti tossici di una sostanza inquinante, dal momento che fornisce una stima più precisa del reale livello di contaminazione degli organismi, rispetto al solo calcolo dell'esposizione.
Il bioaccumulo delle sostanze tossiche può avvenire o direttamente dall'ambiente in cui l'organismo vive o attraverso l'ingestione lungo le catene trofiche oppure in entrambi i modi: nel primo caso il fenomeno viene definito bioconcentrazione, nel secondo caso biomagnificazione.

In entrambi i casi le concentrazioni della sostanza nei tessuti dell'organismo diventano progressivamente  più alte di quelle presenti nell'ambiente da cui è stata assorbita. Il fattore di bioconcentrazione (BCF) viene definito come il rapporto, all'equilibrio, tra la concentrazione di una sostanza tossica nell'organismo e quella del mezzo circostante (per gli organismi acquatici il mezzo circostante è l'acqua, per gli organismi terrestri  corrisponde al cibo di cui si nutrono). Naturalmente tale fattore varia, oltre che da sostanza a sostanza, anche da specie a specie. 

Valori di BCF maggiori di 1000, misurati nei pesci, suggeriscono che la bioconcentrazione negli organismi acquatici è molto elevata (dati HSDB, Hazardous Substances Data Bank).

Bisogna sottolineare che elevati livelli di bioaccumulo sono responsabili del fenomeno di "amplificazione", che porta quantità e concentrazioni nei comparti ambientali dai livelli di traccia a livelli tali da risultare potenzialmente preoccupanti.







Bibliografia:
Baird C, Chimica ambientale, 1997, ed. Zanichelli
Travis C., Arms A.D., Bioconcentration of organic in beef, milk and vegetation, Environ., Sci., Technol., 22, 271 - 274