SINAS
Studio Integrato di Nutrizione, Ambiente e Salute
lunedì 6 marzo 2017
martedì 2 agosto 2016
Come si riconosce un interferente endocrino? L'inserimento nel REACH e il Principio di Sostituzione
Tutte le sostanze chimiche, compresi gli interferenti endocrini, sono soggette a registrazione ai sensi del Regolamento CE 1902/2006, denominato REACH, quando vengono fabbricate o importate nell'Unione Europea per quantità superiore a 1 tonnellata/anno.
Però, le sostanze chimiche identificabili, nello specifico, come interferenti endocrini, sono soggette alle procedure di autorizzazione, secondo quanto stabilito dallo stesso Regolamento REACH, solo se sono classificate come Substances of Very High Concern (SVHC) e incluse, come tali, nell'allegato XIV.
Questa procedura, quindi, avviene analizzando il singolo caso e solo se ci sono evidenti prove scientifiche per cui la sostanza in esame sia una probabile causa di effetti gravi sulla salute umana o per l'ambiente di un livello di preoccupazione che sia almeno pari a:
- sostanze cancerogene, mutagene o nocive per la riproduzione (ovvero classificata come 1a o 1b nel Regolamento CE 1272/2008)
- sostanze persistenti, bioaccumulabili e tossiche.
Il principio di sostituzione impone l'obbligo di sostituzione delle sostanze chimiche tossiche con alternative più sicure, laddove sia possibile.
Alcuni esempi di applicazione del principio di sostituzione per rimpiazzare sostanze di tossicità dimostrata:
- Gli ftalati (o esteri ftalici) sono usati come ammorbidenti nei prodotti morbidi in PVC, inclusi pavimenti, carta da parati, mobili, abbigliamento, e giocattoli, così come in cosmetici e profumi.
- Composti organostannici sono utilizzati come stabilizzatori nelle plastiche, specialmente nel PVC, ed il TBT (tributil stagno) è usato nel trattamento contro le muffe in alcuni rivestimenti per pavimento.
- Alchilfenoli e loro derivati etossilati (APE) sono principalmente utilizzati come tensioattivi non ionici nei detergenti industriali, ma anche nei trattamenti di rifinitura per prodotti tessili e pelli, nelle pitture ad acqua e come componenti di alcuni prodotti per la cura personale.
- Muschi artificiali sono usati in profumi e fragranze, rinfrescanti per l’aria e detersivi in polveri.
H&M ha ristretto l’uso di APE, composti
organostannici, coloranti azoici, bisfenolo A, RFB, diversi metalli pesanti, oltre a idrocarburi
aromatici clorurati. L’azienda ha elaborato un chiaro elenco di criteri per tutti i suoi fornitori,
utilizzato test per garantirne il rispetto, e fatto affidamento sugli stessi fornitori ed esperti chimici per
individuare alternative più sicure.
Puma, una marca di abbigliamento sportivo, si è impegnata ad eliminare i composti chimici
pericolosi, individuati dalla Convenzione OSPAR29, sia dalle scarpe sportive che dai profumi, con un
effetto immediato in tutte la gamma dei suoi prodotti.
Riferimenti:
Progetto LIFE-EDESIA www.iss.it/life
REACH - Esempi pratici di applicazione del principio di sostituzione www.greenpeace.org
mercoledì 27 luglio 2016
Interferenti endocrini: dalla catena alimentare alla gravidanza
L'esposizione a contaminanti ambientali può avere conseguenze negative sulla salute riproduttiva. Queste sostanze, rilasciate nell'ambiente, persistono per lungo tempo, ognuna secondo le sue caratteristiche, o come composto di partenza o come sottoprodotto della sostanza iniziale. In quest'ultimo caso, c'è anche la possibilità che il sottoprodotto sia ancora più nocivo del composto originario.
Un interferente endocrino è definito come un agente esogeno naturale o di sintesi che interferisce con la produzione, il rilascio, il trasporto, la metabolizzazione, l'azione o l'eliminazione di ormoni naturali nell'organismo, responsabili del mantenimento dell'omeostasi (l'attitudine propria degli organismi viventi a conservare le proprie caratteristiche al variare delle condizioni esterne dell'ambiente tramite meccanismi di autoregolazione) e della regolazione di processi riproduttivi e di sviluppo (WHO).
Il bioaccumulo può comportare alterazioni ormonali, alterazione della riproduzione, teratogenesi, immunotossicità e carcinogenesi in maniera diretta oppure attraverso l'influenza sulle reazioni metaboliche del nostro organismo.
Una potenziale fonte di contaminazione deriva dai prodotti agricoli, se metti a contatto con tali contaminanti (utilizzo di pesticidi, inquinamento atmosferico, ecc), per cui può verificarsi un coinvolgimento a livello della catena alimentare, il che suggerisce di curare molto la propria alimentazione, prediligendo prodotti freschi, di stagione, a filiera corta e di origine nota, in modo da essere il più sicuri possibile di ciò che si sta per mangiare.
E' importante lavare bene frutta e verdura prima di consumarle ed utilizzare contenitori per alimenti certificati come tali. Non mettere in freezer o in forno o forno a microonde recipienti che non sono certificati per questo scopo per evitare di sprigionare sostanze nocive.
E' importante avere un'alimentazione varia ed equilibrata, ricca di tutti i nutrienti, soprattutto se si sta programmando una gravidanza (questo suggerimento vale sia per le mamme che per gli aspirati papà), in modo da avere buoni livelli di tutti i minerali e le vitamine necessarie a favorire il processo riproduttivo e lo sviluppo del bambino.
Laddove possibile è importante evitare l'esposizione a sostanze nocive (evitare fumo, alcol, evitare zone ad alto tasso di inquinamento atmosferico, evitare l'utilizzo di oggetti di dubbia manifattura o non certificati, evitare l'abuso di sostanze chimiche come tinture per capelli o prodotti semipermanenti per il trattamento e l'estetica delle unghie).
mercoledì 16 marzo 2016
Olio di palma: davvero così pericoloso?
Articolo apparso sul numero di febbraio 2016 di MONDO IES di dott.ssa Giovanna Corona
Era il 13 dicembre 2014, quando
entrò in vigore il Regolamento Europeo 1169/2011, che riguardava
l’etichettatura dei prodotti alimentari e i criteri da adottare per indicarne
gli ingredienti. Un Regolamento Europeo, quindi valido in tutti i paesi membri,
compresa l’Italia.
Tra le regole introdotte per
l’etichettatura, una fece più rumore di tutte: l’obbligo, da parte dei
produttori, di indicare la tipologia degli oli presenti, precedentemente
indicati con la locuzione generica “oli vegetali”. Dal 13 dicembre in poi,
avrebbero dovuto specificare se si trattava di olio di semi, olio di girasole
o, ad esempio, olio di palma.
L’olio di palma, già in passato,
era stato duramente criticato per le sue proprietà nutrizionali, ma verso la
fine degli anni ’80 la polemica era andata scemando. In compenso gli anni ’90
hanno visto una notevole produzione scientifica riguardante questo prodotto e
l’entrata in vigore del Regolamento Europeo ha rimesso di nuovo tutto in
discussione.
Per quale motivo? Cos’è l’olio di
palma e perché fa tanta paura? Il grasso di palma (denominazione più corretta
in quanto a temperatura ambiente si presenta allo stato solido e non liquido) è
un grasso vegetale saturo non idrogenato, estratto attraverso vari processi di
tipo industriale dai frutti delle palme da olio. Alla fine della lavorazione se
ne ricava un olio di colore rossastro, dovuto alla massiccia presenza di beta
carotene. Trattandosi di un acido grasso saturo a lunga catena (16 atomi di
carbonio), alcuni studi hanno portato alla conclusione che la sua assunzione
possa aumentare i livelli di colesterolo LDL (il cosiddetto “colesterolo
cattivo”) nel sangue ed aumentare, quindi, anche il rischio cardiovascolare. A
questi, però, nel tempo, si sono contrapposti altri studi che, invece, hanno
“scagionato” l’olio di palma dal rischio di aumento del colesterolo LDL, in
quando esso contiene anche il 38% di acido oleico, noto anche con il nome omega
– 9, che è, invece un grasso protettivo. Al momento attuale, la discordanza tra
le conclusioni dei vari studi non ha ancora portato ad un giudizio definitivo
riguardo agli effetti sulla salute dell’olio di palma, in relazione agli altri
acidi grassi saturi (olio di cocco, olio di semi, ecc). Ciò che è certo, è che
con gli acidi grassi insaturi (soprattutto monoinsaturi, tra i quali ricordiamo
l’olio extravergine di oliva), non esistono diatribe ed il loro effetto sulla
salute è benefico (grazie alla presenza dei polifenoli che tendono ad abbassare
il livello di colesterolo LDL nel sangue).
Il vero problema legato all’olio
di palma è l’abuso che se ne fa nella vita quotidiana. Poiché la sua produzione
comporta un basso costo, è utilizzato tantissimo sia come ingrediente in
prodotti alimentari da forno e confezionati, ma anche come ingrediente
cosmetico, all’interno di saponi e creme.
La maggior parte della
popolazione consuma più volte al giorno prodotti confezionati e prodotti da
forno (fette biscottate, biscotti, merendine, derivati del pane) ed utilizza
cosmetici, esponendosi ad un accumulo di olio di palma all’interno del proprio
organismo.
Dopo il 13 dicembre 2014, con
l’evidenziazione in etichetta della presenza di questo ingrediente, molti hanno
orientato le proprie scelte verso prodotti privi di questo olio vegetale,
spinti anche dal tormentone mediatico utilizzato dalle aziende produttrici
stesse per pubblicizzare i propri prodotti “senza olio di palma”.
Ma se non c’è olio di palma cosa
c’è in questi alimenti? In genere olio di girasole, olio di semi, burro,
margarina che sono ugualmente acidi grassi saturi (il burro di origine animale,
gli altri di origine vegetale), che, in quanto tali, hanno sul sangue gli
stessi effetti dell’olio di palma. Anzi, ad un confronto più attento, l’olio di
palma che mantiene il suo colore rossiccio (quindi non raffinato
eccessivamente) contiene anche caroteni, coenzima Q10 e vitamina E, che, tutto
sommato, sono sostanze utili al nostro organismo, particolare non sempre
riscontrabile nei suoi sostituti.
Quindi il problema non può essere
risolto?
Il problema può essere risolto
ricorrendo alle buone prassi di sana alimentazione, ovvero, cercare di
incentrare le proprie scelte verso alimenti più naturali e meno industriali,
riservando ai prodotti confezionati solo alcune occasioni. Se abbiamo
l’abitudine di far colazione con delle fette biscottate, ma per il resto della
giornata evitiamo di consumare altri prodotti da forno derivati e ci
focalizziamo su un consumo di pane e cereali integrali, scegliamo spuntini
“fatti in casa” o a base di frutta e verdura, utilizziamo carne, pesce,
formaggi, latticini e uova freschi, la presenza o meno dell’olio di palma a
colazione sarà pressoché ininfluente.
Ma il problema dell’olio di palma
non è solo di tipo nutrizionale. Poiché la produzione di olio di palma ha un
costo relativamente basso, rispetto alle altre produzioni, a livello di mercato
la richiesta è molto alta, per cui è necessario aumentare la coltivazione delle
palme, di cui la gran parte è effettuata in Malesia. Questa grande richiesta ha
favorito il disboscamento della foresta tropicale, poiché è lì che le
condizioni climatiche consentono la crescita di tale pianta, ma ha anche
favorito processi di rifertilizzazione del suolo che vengono attuati attraverso
incendi appiccati alla foresta stessa. Questi fenomeni sono andati via via
aumentando, fino a generare anche problemi di tipo sociale (ad es. limitazione
del traffico aereo a causa della poca visibilità in atmosfera dovuta al fumo
dei roghi).
A fronte delle polemiche sorte
negli ultimi anni, che sono sfociate anche in petizioni ufficiali per l’arresto
di queste bad practises agricole, il Malaysian
Palm Oil Council (appunto,
il maggior produttore in Malesia) ha iniziato ad attuare delle politiche di
riduzione di impatto ambientale ed ultimamente ha avviato anche le procedure
per ottenere delle certificazioni di sostenibilità.
Poiché, però, anche la produzione delle altre
tipologie di oli vegetali non di palma genera problemi di sostenibilità (seppur
di livello inferiore), il consiglio da poter dare è sempre lo stesso:
innanzitutto informarsi sempre al meglio, sia a livello mediatico, attraverso
fonti accreditate, sia a livello specifico, prendendo l’abitudine di leggere
bene le etichette e comprendere cosa davvero contiene il prodotto che stiamo
per consumare; inoltre è importante mantenere uno stile di vita (e, quindi,
anche di alimentazione) sano, equilibrato e vario. E’ preferibile che i
prodotti industriali integrino la
nostra alimentazione e non ne diventino i componenti principali. In questo modo
possiamo ridurre al minimo l’assunzione (e quindi anche gli effetti) di
sostanze non proprio salutari e limitiamo lo sfruttamento smisurato e fuori
controllo dell’ambiente, anche di quello che non ci tocca da vicino perché
lontano da noi migliaia di km. A proposito, quando possibile, per dare una mano
all’ambiente, scegliamo il km zero.
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mercoledì 6 gennaio 2016
Carbone vegetale: cos'è e a cosa serve?
Da un po' di tempo a questa parte se ne sente parlare tanto e si legge spesso tra gli ingredienti di numerosi prodotti da forno e non solo: il CARBONE VEGETALE. Ma cos'è e a che serve?
Il carbone vegetale si presenta in polvere ed è ottenuto da una combustione senza fiamma ad alte temperature (intorno ai 500 - 600 °C) in atmosfera priva di ossigeno di diversi tipi di legno (betulla, pioppo, salice, ecc) o anche da segatura o gusci di frutta secca.
Il carbone vegetale, noto anche come carbone attivo, ha la capacità di adsorbire (ovvero legare alla sua superficie) le sostanze tossiche dal nostro organismo, in modo da impedirne l'assorbimento da parte dell'intestino e, quindi, l'immissione in circolo, favorendone, invece, l'eliminazione attraverso le feci. A livello terapeutico viene utilizzato anche in casi di avvelenamenti o intossicazioni o in preparazione ad alcuni esami clinici (come, ad esempio, l'ecografia addominale) che prevedono una pulizia gastrointestinale.
Data la sua funzione adsorbente viene, quindi, utilizzato, anche per limitare fenomeni di gonfiore addominale, meteorismo e flatulenza, anche se bisogna, come con ogni sostanza estranea al nostro organismo, utilizzarla con moderazione.
Innanzitutto, bisogna fare attenzione se si assumono farmaci. La capacità dei carboni attivi di sequestrare sostanze dall'intestino vale anche per i farmaci, che, quindi, se assunti insieme al carbone o a poco tempo di distanza )sia prima che dopo) possono avere una minore efficacia.
Un altro problema che si può riscontrare è che, utilizzato in dosi eccessive, per tempi prolungati o in condizioni in cui non ce ne sia bisogno, possa sottrarre anche sostanze "buone", come i minerali essenziali, calcio, potassio, rame, zinco o altri nutrienti di cui necessitiamo, portandoci ad una situazione di carenza.
Come additivo alimentare, secondo quanto stabilito dall'EFSA (European Food Safety Authority), la maggiore autorità a livello europeo per la sicurezza alimentare, l'utilizzo del carbone vegetale all'interno degli alimenti è autorizzato sotto forma di colorante, la cui sigla è E153 (reg. CE n. 1333/2008, reg. UE n. 1129/2011).
Sempre secondo le autorità europee (anche specificato dal Ministero della Salute, con nota del 22 dicembre 2015), il carbone vegetale non può essere considerato un ingrediente e non può comparire in etichetta come ingrediente. Gli alimenti con aggiunta di carbone vegetale non possono essere considerati "terapeutici" e non possono riportare scritte che ne indichino un utilizzo terapeutico. Inoltre, l’impiego del carbone vegetale non è ancora previsto per gli alimenti venduti con la denominazione “pane” bensì per i “sostituti del pane”, quali ad esempio grissini, cracker, gallette, pizze e schiacciate, taralli, fette biscottate, etc.
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lunedì 7 dicembre 2015
Frutta, verdura, salute e inquinamento: quali relazioni?
L’importanza del consumo dei
vegetali è dovuta alle grandi proprietà di tali prodotti che ci consentono di
fare prevenzione
primaria, ovvero aiutano a prevenire gran parte delle patologie,
gastrointestinali, cardiovascolari, tumorali, grazie alla presenza di minerali
e vitamine con funzione antiossidante che contrastano la formazione di radicali
liberi, alla base di gran parte delle patologie. Inoltre le fibre in essi
contenuti modulano l’assorbimento degli altri nutrienti.
Ormai, però, sono anni che
sentiamo tanto parlare di problemi ambientali, inquinamento, contaminazioni e
molto spesso il pensiero che questi problemi possano compromettere la salubrità
dei prodotti della terra, da sempre ritenuti quanto di più buono e sano possa
esserci, può scatenare qualche dubbio e qualche riflessione.
Possiamo essere sicuri di ciò che
mangiamo? Ciò che preoccupa maggiormente, in quanto più diffuso e di impatto
immediato, è l’inquinamento atmosferico, quello derivante dalle aree
industriali, dallo smog delle città, dalle cattivi abitudini (dar fuoco senza
controllo a materiali di scarto, sterpaglie e rifiuti), in quanto genera
particolato che può depositarsi direttamente dall’atmosfera o attraverso le
precipitazioni su frutta e verdura prima che vengano raccolti o sul suolo in
cui questi crescono.
Una seconda fonte di preoccupazione
per eventuali contaminazioni dei prodotti vegetali è l’utilizzo di pesticidi, sostanze in grado di uccidere
un organismo indesiderato o, almeno, di esercitare nei suoi confronti un’azione
di controllo o di limitazione (ad esempio, interferendo con i loro processi
riproduttivi). Tutti i pesticidi chimici presentano la proprietà comune di
bloccare un processo metabolico vitale per gli organismi su cui risultano
tossici.
Oltre ad un rischio
essenzialmente chimico, però, all’igiene di frutta e verdura è associato anche
un rischio di tipo biologico, Ovvero la possibilità che durante il periodo
della coltivazione, ma anche di conservazione, i prodotti vegetali siano venuti
in contatto con insetti e animali vari, i quali potrebbero aver depositato su
di essi escrementi o altri fluidi corporei, potenzialmente contaminati, a loro
volta, da patogeni.
Come ci si può difendere da
questi rischi?
Innanzitutto è fondamentale, così
come ci insegnano genitori e nonni, lavare bene con acqua corrente,
anche per 2-3 volte. L'ideale è che sia tiepida (tranne per l'insalata,
che va lavata in acqua fredda per evitare perdita di tonicità delle foglie).
Le verdure a scorza dura, come
patate e carote, vanno trattate anche con una spazzola, mentre la frutta a
grappolo o di piccole dimensioni (uva, ciliegie) vanno messe in ammollo (non
troppo), sfregate delicatamente e cambiate di acqua un paio di volte.
Per uva, mele, prugne, pesche,
pere e pomodori può essere sufficiente il trattamento con acqua.
In alcuni casi è opportuno
intervenire anche con qualche solvente, possibilmente di tipo naturale. No,
quindi, agli additivi chimici, non è necessario utilizzare
l'amuchina, poiché questi possono alterare il valore nutritivo del
vegetale e possono, paradossalmente, lasciare tracce sulla superficie,
per cui per scongiurare il rischio biologico genereremmo un rischio chimico.
In alternativa esistono dei
metodi semplici ed anche economici che prevedono l'utilizzo di sostanze comunemente
presenti nelle nostre case, come bicarbonato, limone e aceto.
In generale, possiamo elencare un
efficace decalogo per garantire un consumo sicuro di frutta e
verdura nelle nostre case :
- Sciacquare bene ed energicamente tutto con acqua corrente (un occhio di riguardo alla frutta a grappolo e di piccole dimensioni…non distruggiamole!);
- Mantenere puliti i piani della cucina, di cottura e il frigo, pentole, posate e tutto ciò che entra in contatto con gli alimenti;
- Lavarsi sempre le mani con acqua tiepida e sapone prima di maneggiare gli alimenti;
- Non utilizzare sacchetti di plastica per conservare frutta e verdura;
- Non utilizzare prodotti chimici per la pulizia e la disinfezione degli alimenti;
- Evitiamo di consumare la frutta con la buccia;
- Se proprio dobbiamo consumare frutta con la buccia non trascuriamo nessun passaggio per la pulizia, compresi gli strofinamenti con panni e spazzole
- Lavare sempre tutte le parti, anche gli scarti: il contatto delle mani e delle stoviglie con parti "sporche" dell'alimento può contaminare anche la parte edibile;
- Tutte le parti danneggiate devono essere rimosse, potrebbero essere punti deboli per l'attacco di patogeni;
- Teniamo frutta e verdura lontano dalle carni non cotte per evitare il rischio di contaminazioni.
Spesso si avanzano anche ipotesi di inquinanti
contenuti nel suolo trasmessi attraverso le radici all’interno del vegetale, in
prevalenza metalli pesanti. Per quanto riguarda quest’ultimo punto ci sono
delle precisazioni da fare: le radici delle piante assorbono i nutrienti dal
suolo attraverso l’acqua, ovvero per essere assorbita, una sostanza deve, in
primis, essere solubile in acqua. Se non è solubile non entra nelle radici.
In
condizioni “standard” le piante, attraverso un elaborato metodo di scambio
cationico e grazie alla presenza di una sorta di barriera denominata “Banda del
Caspary” (che funge da filtro per le sostanze in ingresso), riesce ad assorbire
solo le sostanze ad essa necessarie, lasciando all’esterno le sostanze estranee
o addirittura tossiche per essa.
Esistono
casi in cui alcune sostanze “non previste” riescano a penetrare all’interno
delle radici, ma solo se esistono gravi problemi legati a fattori fisici del
suolo, carenze di particolari elementi essenziali o per problemi (seppur rari)
di biodisponibilità dei nutrienti. In genere, quando il vegetale assorbe una
sostanza non essenziale, soprattutto poiché in luogo di una sostanza
essenziale, ne risente lo sviluppo della pianta stessa, per cui ne risulta
danneggiata, muore o, se sopravvive, il suo aspetto indica una situazione non
buona.
In
ogni caso, le comuni pratiche agricole, sia convenzionali che biologiche,
laddove applicate secondo i canoni, prevedono procedure (anche completamente
naturali) per ovviare a questi problemi, analisi preliminari del suolo o
utilizzo di fertilizzanti arricchiti di minerali per evitare deficit di elementi
essenziali, per cui consumare prodotti ortofrutticoli di agricolture note e
tracciate può fornire la garanzia necessaria ad assicurare la salubrità di ciò
che mangiamo.
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